mercoledì 14 novembre 2007

ROMAGNOLI SUL SIMBOLO DEL PARTITO: GIU’ LE MANI DALLA FIAMMA, PER NOI E’ SACRA!


“La Fiamma che fu di Giorgio Almirante è oggetto di un contenzioso che dura dal lontano 1995, tra noi e Alleanza Nazionale e gli unici due partiti che possono rivendicarne la titolarità sono i nostri”.
E’ quanto affermato da Luca Romagnoli Segretario nazionale della Fiamma Tricolore, nel commentare la notizia di un presunto ‘mercimonio’ su quello che fu, e ancora oggi rappresenta, l’Identità di una comunità, la Missina.
“Al momento l’unica certezza è che il simbolo è stato temporaneamente assegnato ad AN”.
“Ma la Fiamma Tricolore – ha sottolineato Romagnoli – è l’unico partito che ha fatto proprio, in modo integrale, anche a livello di statuto, la tradizione del vecchio M.S.I. e ne è, nei fatti, la continuazione ideale, politica e storica”.
“Leggere che qualcuno ‘può’ vendere o acquistare il simbolo dell’M.S.I. è grottesco, ma al tempo stesso sacrilego, perché per noi quel simbolo è parte viva della nostra storia e se mai fosse in vendita, cosa che non è, ci indebiteremmo pur di riaverlo”.
“Stiamo valutando se ci sono i presupposti per un’azione legale, nei confronti degli speculatori”. Ha infine concluso Luca Romagnoli.


Roma, 14 novembre 2007
tratto dal sito di Fiamma tricolore

venerdì 9 novembre 2007

Versi...


Le strade di notte sono deserte e buie
illuminate da un lampione
che continuo a guardare
e a fissare
lasciandomi meditare e pensare.
Mentre guardo, sento rumori
e non sapendo da dove provengono
rientro dentro perchè ho paura.
Mi siedo, accendo una sigaretta
e sento quel rumore:
è il mio cuore malato.

giovedì 8 novembre 2007

Le origini del Fascismo


La parola “fascismo” deriva dal fascio di verghe che erano portate nell’antica Roma da appositi addetti chiamati “littori”, (da qui la denominazione “fascio littorio”). I fascis littorii erano le guardie del corpo personali del magistrato e rappresentavano il potere che avevano di uccidere il re. Tra le verghe del Fascio, o lateralmente, vi era inserita una scure, che però in età repubblicana veniva tolta quando si era all’interno della città. Dopo la disfatta di Caporetto, il termine Fascio cominciò ad essere legato alla necessità di un’unione nazionale al di sopra degli interessi dei partiti. Come tale, ma accompagnato da rivendicazioni rivoluzionarie, l’emblema romano venne accolto da Benito Mussolini, divenendo il simbolo dei Fasci di Combattimento e in seguito del Partito Nazionale Fascista, per simboleggiare l’unione del popolo italiano e per volersi ispirare alla potenza e alla grandezza del popolo romano. Per i giovani la Prima Guerra Mondiale era stata un’avventura, un’esperienza vissuta con l’esaltazione dell’eroismo e del coraggio, ma il disastro morale sopraggiunse quando si scoprì che era una guerra nuova, lunga, di logoramento. Così si accusò il Parlamento e i partiti di disfare con vuote polemiche quello che i combattenti conquistavano col sangue. Queste accuse, anche se prive di fondamento, prepararono il terreno per i futuri semi dei movimenti combattentistici; vale a dire: arditismo, futurismo politico, fiumanesimo, fascismo. I movimenti combattentistici fecero della partecipazione alla guerra l’origine, legittima, del loro diritto al potere e alla guida del paese rinnovato. Dovevano, infatti, salvare la patria dal nemico interno, come l’avevano salvata da quello esterno, e rinnovarla, attraverso vari propositi: purificazione morale, lotta all’analfabetismo, giustizia per tutti, riconoscimento dei diritti delle donne, istituzione del divorzio, riforma del costume. Il movimento non presentò solo quest’aspetto, in alcuni nuclei di minoranza, dai quali sorse la prima classe dirigente fascista, fu la premessa di un’ideologia sovversiva, che voleva la distruzione degli istituti liberali e l’esaltazione del ruolo avuto dalle aristocrazie guerriere, in particolare gli arditi. Questi ultimi, che rifiutavano di riprendere un posto nel “sistema” una volta finita la guerra, furono guardati con sospetto o corteggiati, soprattutto dai partiti estremi, che tentarono di accaparrare per sé quel capitale d’energie e d’individui pronti a tutto, privi di scrupolo ed efficaci combattenti. Durante la guerra gli arditi avevano goduto, in compenso del rischio, particolari privilegi, senza dover subire la logorante vita di trincea. Essi quindi avevano vissuto la guerra soltanto come spettacolo del loro eroismo individuale, esibito sempre ai limiti della morte. N’era derivato un gusto per il temerario, una familiarità con la morte stessa, che diventava quasi un desiderio d’apparire tanto coraggiosi e superiori alla massa comune, da amare la morte e da assumerla a simbolo del loro valore. Gli arditi erano convinti di aver acquisito valori e qualità che li rendevano superiori alle masse. Sorsero così formazioni d’arditismo, corpi scelti destinati alle azioni più pericolose, con simboli che rispecchiavano il loro carattere e la loro esaltata psicologia; simboli “strani” in cui tornava sempre il colore, l’immagine, l’idea della morte (stendardi neri, teschi col pugnale fra i denti). Gli arditi furono certamente fra i primi a distinguere il combattentismo fra partecipazione attiva, aristocratica e partecipazione di massa, passiva e incosciente. L’istintiva neutralità delle masse era un fatto indiscutibile, comune sia alla borghesia sia al proletariato, ma dovuto più ad un naturale sentimento di evitare il peggio, che ad una convinta adesione a teorie pacifiste. L’aspetto più interessante della loro “ideologia”, fu l’esaltazione della giovinezza e dell’azione, ideologia efficace nell’attrarre i giovani, specialmente quelli che non avevano fatto la guerra. Al contatto con futuristi e fascisti, gli arditi aspirarono a formulare la loro dottrina sulla base dell’esperienza della guerra, dando vita a una contestazione verso la società borghese, rivolta soprattutto verso la sua mentalità, piuttosto che verso i suoi fondamenti. Sul piano politico chiedevano l’annessione delle terre italiane e delle terre necessarie alla grandezza della nazione, la riforma elettorale, la Costituente, la rappresentanza dei combattenti, la revisione dei contratti di guerra, l’incriminazione dei profittatori e infine, l’espropriazione dei capitali e nuove leggi sul lavoro. Attivismo, nazionalismo (esaltazione dello stato nazionale, considerato come ente indispensabile per la realizzazione delle aspirazioni sociali, economiche e culturali di un popolo) e giovinezza sono caratteri dell’arditismo che il fascismo fece suoi. Gli arditi fornirono alla forza nascente del fascismo quadri attivi, armati, esperti nelle azioni rapide, pronti alla violenza e allo scontro fisico, poco o per nulla rispettosi delle idee altrui. Inoltre l’arditismo fu il metodo di lotta del fascismo, che ne prese anche i simboli e lo stile (la camicia nera). All’interno dell’estremismo combattentista, l’unico gruppo che avesse un’ideologia, a cui attinsero arditi e fascisti, era quello futurista. Nato come movimento artistico nel 1909, il futurismo fu la prima avanguardia del Novecento che, per la sua polemica contro le radici dell’arte (no scuola classica, no città monumentali) e della cultura tradizionale, investiva tutto il mondo di valori, di abitudini, di istituzioni legato a quello della cultura stessa (Filippo Tommaso Martinetti). Al centro dell’ideologia futurista vi era la concezione della vita come movimento verso il futuro e la libertà assoluta dell’individuo come il valore fondamentale; perciò questa ideologia non ammetteva né leggi, né religione, né tradizioni. Per il futurismo parlare di solidarietà e di uguaglianza, in senso assoluto, era in linguaggio passatista. La lotta quotidiana, l’aggressività dei forti verso i deboli, erano considerate norme valide sia per gli individui e sia per i popoli, perché erano necessarie per eliminare gli elementi decadenti, deboli e corrotti. Da queste premesse di darwinismo sociale, i futuristi negarono la solidarietà fra gli esseri umani e fra i popoli, ed esaltarono le virtù della giovinezza, il coraggio, l’amore del rischio e dell’avventura, che servivano appunto per selezionare gli uomini nuovi dalla massa dei vecchi inerti. Anche la violenza era accettata, essendo vista come manifestazione dell’esuberanza e dell’insofferenza dei giovani per la politica delle parole e dei compromessi. I futuristi quindi accolsero con viva approvazione la decisione di Mussolini di fondare i Fasci di combattimento e ne furono i primi animatori ed organizzatori. La data di nascita ufficiale del Fascismo viene comunemente fatta coincidere con questa fondazione (23 marzo 1919). Mussolini però intendeva dar vita ad un movimento più che ad un partito, quest’ultimo, infatti, fu creato soltanto il 7 novembre 1921. Il tentativo di teorizzare il fascismo fu affrontato nel giugno del 1932, con la pubblicazione del XIV volume dell’Enciclopedia Italiana contenente la voce Fascismo a firma di Benito Mussolini. Il saggio si divideva in due parti ben distinte: le Idee fondamentali e la Dottrina politica e sociale; la prima, a carattere teorico e dottrinale, fu scritta, in realtà, da Giovanni Gentile (1875 – 1944), la seconda, più “politica” in senso stretto, da Mussolini. I punti che il filosofo sviluppò nel suo scritto sono: la coincidenza di prassi e pensiero, la polemica antiliberale e la differenziazione dai nazionalisti. Nel binomio pensiero e azione il filosofo siciliano vedeva, infatti, la più netta e decisa presa di posizione contro la tradizione italiana, di origine appunto rinascimentale, che mirava a separare l’uomo di pensiero dai problemi della società, cioè della politica. Nel suo testo Gentile analizza “che cos’è” il fascismo e a quali concezioni politiche esso si oppone. Il fascismo è prassi, in quanto è inserito in uno specifico momento storico, ma è anche pensiero poiché contiene in sé un ideale che lo eleva a formula di verità. E’ una concezione spiritualistica, ma non è scettica, né agnostica, né pessimistica, né passivamente ottimistica, come lo sono, in generale, le dottrine che pongono il centro della vita fuori dell’uomo. Il fascismo vuole un individuo attivo, che concepisca la vita come lotta e che capisca che solo lui può conquistarsi l’esistenza che vuole. Per questo viene data grandissima importanza alla cultura in tutte le sue forme (arte, religione, scienza) e all’educazione. Esso è anche una concezione religiosa, in cui l’uomo è visto in rapporto con una Volontà superiore e obiettiva che lo eleva a membro consapevole di una società spirituale. Inoltre è una concezione storica, nella quale l’uomo “esiste” solo in rapporto con la società, la famiglia, la nazione e la storia. Per questo motivo viene dato gran peso alle tradizioni, ai costumi, alle memorie e alle norme del vivere civile, contrariamente a quanto professava il futurismo politico. Ha una concezione antiindividualistica dello Stato, ed è quindi contro il socialismo poiché non esistono né individui, né partiti fuori dello Stato. Al tempo stesso però il fascismo è contro la democrazia, che “ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più” (segue il darwinismo sociale dei futuristi). Per Gentile, e quindi per Mussolini, non è la nazione a generare lo Stato, ma il contrario, perché esso dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà e un’effettiva esistenza. Lo Stato disciplina tutti gli individui, ispirando con i suoi principi le personalità di ognuno; per questo il fascismo è educatore e promotore di una vita spirituale, volendo rifare l’uomo stesso, il suo carattere e la sua fede. La sua insegna è perciò il fascio littorio, simbolo dell’unità, della forza e della giustizia.

Tratto da www.ladestra.info

mercoledì 7 novembre 2007

Storia della Basilica Pontificia S. Antonio di Padova ad Afragola (Ex Santuario)

Interno Basilica Pontificia S. Antonio di Padova ad Afragola (Ex Santuario)

La fondazione del complesso monastico intitolato a S. Antonio, affonda le sue radici nel 1613, quando, voluto dalla popolazione e dall’amministrazione, a seguito della loro istanza presso la Curia che avrebbe dovuto acconsentire l’edificazione a cura dell’ordine mendicante dei francescani, iniziarono anche le diatribe con i padri domenicani che rivendicavano la loro unica presenza nel casale. Il decreto della Santa Congregazione dei Religiosi del 1615, concedeva ai francescani la facoltà di edificare una chiesa e, appena un anno dopo, si erigeva in stile barocco, un tempio a navata unica, prima dedicato all’Immacolata, poi a S.Francesco e in ultimo a S.Antonio. Le continue rimostranze domenicane furono messe a tacere dal Cardinale Borromeo che, nel 1633 appoggiò i francescani e, con lettera pastorale del 1638, esortò il popolo a contribuire anche per la costruzione del monastero. Verso la metà del seicento nacquero delle controversie tra i francescani e la municipalità che rivendicava la paternità del complesso religioso. Infatti, sulla porta centrale della chiesa, l’autorità appose lo stemma del casale e i frati quello dell’Ordine, ma non contenti, i francescani, sotto emblema Afragolese vi fecero incidere le parole “Sine Paejudicio”, a garanzia della loro assoluta proprietà. All’inizio del settecento, i fedeli erano sempre più numerosi e la chiesa diventava insufficiente pertanto iniziarono ingenti lavori di ampliamento, che videro la realizzazione di alcune cappelle a sinistra della navata; la chiesa fu riconsacrata il 28 aprile 1715. Nel 1866 il decreto governativo che sopprimeva gli ordini e confiscava i loro beni, ridusse la comunità fratesca a pochi religiosi, addetti esclusivamente all’officiatura della chiesa che era sotto il controllo dell’autorità civile. Un anno dopo la chiesa fu ceduta al comune di Afragola che la governava grazie ad un rettore, quest’ultimo si pose in maniera forte ed intollerante tanto da far ritirare, dopo pochi anni, l’esiguo numero di ecclesiastici. La chiesa fu chiusa, non celebrò per quattro anni, fino al 1906, quando, grazie al sindaco Raffaele Gargiulo, tornarono i frati mendicanti che si adoperarono per restaurare ed adeguare la chiesa ai numerosi devoti del Santo Titolare. I lavori ebbero inizio con padre Cherubino e proseguirono grazie a padre Ludovico Damiano: si rifecero tetti e solai, si costruirono una fila di cappelle a destra della navata, fu spostato l’abside all’indietro, oltre l’antica sagrestia, fu abbassato e rifatto il pavimento e il rivestimento di pareti e pilastri e furono restaurate le facciate, quella principale presentava un elegante vestibolo a tre ampie fornici. Il pittore Vincenzo Severino, nel 1918 iniziò un ciclo di opere che ancora arricchiscono le cappelle e la volta dell’edificio sacro. I lavori terminarono nel 1920, anno in cui la chiesa fu riconsacrata da monsignor Benedetto Spila. La chiesa come oggi l’ammiriamo è frutto degli ingenti lavori che iniziarono nel 1935 per terminare nel 1965, fu in questi anni che furono realizzate le navate laterali modificando la parte anteriore delle cappelle. Fu sfondando l’abside, creando un ambulacro dietro il trono e altre cappelle nelle nuove mura absidali aperte verso il giardino e fu trasformata la facciata, chiudendo il pronao d’ingresso e anticipando il portale con due alte colonne ioniche, furono aperte ampie arcate nel fronte del convento. Il modesto campanile a vela risalente al XVII secolo, fu sostituito nel 1950 con una massiccia torre campanaria realizzata in tufo, la cui edificazione durò un anno. Gli ultimi ingenti lavori risalgono al 1986, all’intervento della Sovrintendenza ai Beni Culturali, con i quali si è recuperata l’immagine decorosa che oggi fortemente affascina. Caratteri ambientali Il santuario intitolato a S.Antonio da Padova, s’impone maestoso e armonico sulla piazza prospiciente e nella complessità architettonica delle fabbriche che lo compongono rappresenta un segno forte ed importante dell’antica e vitale fede popolare. Caratteri tipologici-morfologici Il rilevante complesso religioso dedicato a S. Antonio, si compone della chiesa affiancata a sinistra dal campanile, a destra dalla sala delle offerte e dal convento dei frati e, ancora a destra dal maestoso edificio del colleggio serafico. La chiesa, a seguito dei continui interventi realizzati nei secoli, ha perso completamente il seicentesco aspetto originario, arricchendosi e modificandosi negli anni, sia strutturalmente che decorativamente. Planimetricamente si articola con tre navate e cappelle laterali scandite da possenti pilastri che impostano archi a tutto sesto. La navata centrale, riccamente decorata con una festa di pitture, ori, stucchi e marmi cattura lo sguardo e lo rivolge verso il notevole tempietto che mostra S.Antonio. Voltata a botte è ben illuminata da ampie finestre arcuate alloggiate nelle modanate lunette che si aprono nella copertura sovrastanti il rilevante cornicione che elegantemente circoscrive la navata. La volta riccamente decorata con stucchi dorati che caratterizzano gli elementi architettonici, presenta una armoniosa cornice che pone in risalto la tela dipinta nel 1918 da Vincenzo Severino raffigurante La Gloria di S.Antonio; dello stesso artista sono i dipinti che fregiano le volte e lunette delle navate laterali e i tondi con santi Francescani. La navata laterale destra custodisce, nella prima cappella un seicentesco Crocifisso ligneo, che fu ritrovato malridotto nei depositi del convento e abilmente restaurato nel 1962. Nella seconda possiamo ammirare l’antico altare maggiore,pregevole opera realizzata in marmi variegati, nel XVIII secolo. La quarta cappella, oggi intitolata a S.Francesco, ospitava il simulacro del Santo Titolare, posto ora nel trono presbiteriale. La cappella si distingue per la ricchezza degli stucchi che formano una elegante decorazione in stile classico e per la rilevante statua del Santo conservata nella fastosa nicchia realizzata con pregiati marmi. Posto sull’ingresso principale è la sinuosa balconata della cantoria. Il presbiterio è affiancato da due vani e l’abside è perimetrato da un passaggio ove si aprono tre cappelle finemente decorate, con antichi altari, ed intitolate a S.Giorgio, S.Lucia e S.Elisabetta. Il presbiterio è delimitato da una bassa balaustra in marmo e l’arco trionfale foggia lo stemma francescano sormontato dalla corona reale. Il presbiterio e l’abside sono impreziositi dagli affreschi compiuti da Vincenzo Severino tra il 1918 e il 1920, al centro della volta del primo è raffigurato il Miracolo della Mula che adora Gesù Sacramentato, l’invaso dell’abside è decorato con Angeli che invitano ad adorare il Signore. L’altare maggiore a mensa è di recente fattura, è stato realizzato in marmi colorati nel 1990. L’ampio tabernacolo visibile da tre lati, che custodisce la settecentesca statua lignea del Santo Titolare è un opera realizzata su progetto dell’ingegnere Luigi Sorrentino nel 1922 ed è mirabilmente illuminata con luce colorata che aumenta l’effetto suggestivo sui fedeli. Ai piedi del Trono, nella parte posteriore, è possibile ammirare e venerare le preziose reliquie del Santo, frammenti di ossa, custodite nell’artistico reliquiario risalente al 1931. Il patrimonio artistico del santuario, si fregia dello straordinario pulpito in marmi scolpiti, magistrale opera di Francesco Jerace del 1927 che, costituito da una possente colonna con plinto e capitello che reggeva la cassa, era posto sul pilastro tra la quarta e quinta arcata della navata principale. Oggi smembrato nelle parti, la cassa impreziosisce il presbiterio e la colonna è posta lungo l’ambulacro posteriore l’abside. Nella sagrestia, con accesso dall’ambulacro posto dietro l’abside, è collocata la mirabile tela raffigurante S.Antonio che riceve la visione di Gesù Bambino, dipinta nel 1630 da Agostino Beltramo. La facciata della chiesa fu disegnata dall’architetto Antonio Pantaleo, che riprende l’antico fronte e lo modifica con la realizzazione della loggetta centrale e con l’arretramento degli ingressi laterali. Essa presenta un doppio ordine, marcato da ampia trabeazione, culminante con fastigio ove è situata l’effige in maioliche policrome del Santo Titolare. Le sezioni sono scandite da paraste che evidenziano l’articolato impianto planimetrico ed inquadrano al primo ordine il portale ligneo a tutto sesto, anticipato da un modesto vestibolo con colonne ioniche arricchite da festoni che reggono la soggetta; al secondo in asse con il portale una finestra con timpano arcuato e lateralmente semplici modanature disegnano ampi riquadri. Il fastigio del tempio a cuspide mostra, su levigate piastrelle policrome semplicemente incorniciate, l’effige del Santo Titolare. Alla sinistra del fronte, si erge il severo campanile a pianta quadrata che svetta con quattro ordini sovrapposti svuotati da bucature arcuate; un loggiato panoramico e una cuspide rivestita con lamina di rame concludono la torre.



Il cuore Juve agguanta l'Inter: 1-1


Alla fine, la Juve ce l'ha fatta. Con le unghie, con i denti, con l'orgoglio, con Ranieri. Anche con un piede, quello di Samuel, che ha permesso che la zampata scagliata da Camoranesi a 13 minuti dalla fine si trasformasse nel gol che vale almeno una mezza vendetta. L'Inter ha compiuto l'errore di non mandare sott'acqua la rivale vogliosa di regolare i conti dopo avere avuto più di una occasione, specie nella ripresa, per compiere il delitto perfetto: non ci è riuscito soprattutto Ibrahimovic, apparso più che disturbato, alla faccia delle parole della vigilia, dai fischi e dagli insulti di un intero stadio. Mancini mastica amaro, anche perchè la squadra era stata invece fredda e spietata nella prima parte, quando aveva contenuto senza grandi affanni la voglia matta di una Juve tutta nervi e gambe. Coraggiosa, la Signora, coraggioso Ranieri che ha puntato tutto sulla muscolarità a centrocampo (con Nocerino principale testimonial) e su una squadra corta, forse troppo. Difesa alta e ricerca insistita del fuorigioco: una scelta di cui Ranieri ha rischiato di rimanere vittima, visto che è stata puntualmente punita da Cruz al 41' e graziata in un altro paio di occasioni da Ibrahimovic e Cesar. Col senno di poi, inoltre, il tecnico romano ha rischiato di scontare anche il pagamento di un debito, quello della riconoscenza dovuta a Del Piero e Nedved, i due simboli di gloria, caduta e rinascita juventina. Non potevano e non dovevano rimanere esclusi da una serata come questa. I due senatori, in un contesto estremamente fisico e dinamico, sono però stati totalmente avulsi dalla manovra bianconera, portata per mano fino alle soglie dell'area nemica da Palladino, protagonista di una prova che attesta il suo definitivo salto di qualità. A metà ripresa, il tempo della prestigiosa coppia era abbondantemente scaduto, così come stava per scadere quello della Juventus, ancora in partita grazie a Buffon, all'attenzione del guardalinee che annulla -correttamente- il 2-0 di Cambiasso, alla scarsa lucidità di Ibra e dei suoi soci. Dentro, allora, i centimetri di Iaquinta e il pepe di Camoranesi: sette minuti bastano e avanzano per dare la scossa decisiva, confezionare la palla buona per Trezeguet (serataccia anche per lui) e poi provvedere direttamente, anche se con il decisivo intervento di Samuel, all'1-1 che consente allo sterminato popolo bianconero di non dovere ulteriormente soffrire di dolori al fegato nel sentire pronunciare la parola "Inter". Per questa notte, è più che sufficiente questo. Da lunedì in poi, magari, i fidanzati della Signora capiranno quanto il vero risultato del duello sia la continuazione di un sogno apparentemente impossibile, quello dello scudetto numero 28, orgogliosamente mostrato (insieme al "gemello" revocato) da uno striscione in curva. Se ne riparlerà a San Siro, al ritorno: per la Juve, sarebbe già una grande vittoria.

domenica 4 novembre 2007

Corte di FN e AS contro l’immigrazione



Domenica 4 novembre, anniversario della vittoria dell’Italia nella Grande Guerra, alle ore 18,00 a Piazza di Ponte Milvio Una data simbolica che ha significato tantissimo per la storia d’Italia: il 4 novembre 1918 sancì la vittoria dell’Italia sull’Austria nella Prima Guerra Mondiale. Un momento della storia patria immortalato da canzoni epiche come “La canzone del Piave” che al grido “non passa lo straniero” spinse i nostri soldati alla vittoria. A quasi novant’anni da quel 4 novembre, gli italiani sono chiamati di nuovo a lottare per difendere la propria patria dall’invasione straniera: ieri erano austriaci o francesi o spagnoli, oggi sono extracomunitari, magrebini, rom, zingari. L’Italia è invasa da oltre 4 milioni di stranieri molti dei quali dediti esclusivamente a criminalità e delinquenza. È ora di dire basta! Forza Nuova non incita alla presa delle armi, né a farsi giustizia da soli; non vogliamo che lo scontro sociale che purtroppo è in atto in Italia oggi, degeneri in scontri “etnici” o “razziali”. Forza Nuova incita il popolo italiano a far sentire la propria voce ai politicanti che ci governano e che non hanno fatto nulla per evitare le morti, gli stupri, le violenze, le rapine che da anni devastano il nostro paese. I provvedimenti d’urgenza presi dal governo sono palliativi, un tentativo di chiudere il cancello quando i buoi sono scappati, per salvarsi la faccia di fronte alla gente che non ne può più di vivere perennemente nell’insicurezza e nella paura. Il premier in pectore Veltroni ha ordinato un decreto e decreto è stato, ma quanti morti ci sono voluti perché si svegliasse? Perché non l’ha chiesto dopo la morte di Vanessa Russo, dopo le violenze atroci di Tor Vergata, dopo la sommossa popolare di Ponte Mammolo? E Fini con che faccia si erge a paladino della sicurezza degli italiani, lui che ha firmato una sanatoria per un milione di clandestini? E Prodi, non poteva pensare alle espulsioni dei criminali prima di varare l’indulto cosi avremmo risolto il problema del sovraffollamento delle carceri e forse avremmo dato più sicurezza al nostro paese? È giunto il tempo che gli italiani si sveglino e scendano in piazza con Forza Nuova che da sola da più di dieci anni combatte contro l’immigrazione, contro chi sfrutta l’immigrazione, contro chi affama quei popoli costringendo milioni di uomini donne e bambini a migrare alla ricerca di una vita migliore. Forza Nuova chiama a raccolta tutti i patrioti che non vogliono vedere l’Italia distrutta da politicanti inetti e criminali immigrati. Roma, 03/11/2007

Tratto dal sito:www.ladestra.info

sabato 3 novembre 2007

Una storia molto triste: "Sergio Ramelli"


"Il 13 marzo 1975, verso le ore 13, Ramelli Sergio residente a Milano in via Amadeo 40, stava appoggiando il motorino poco oltre l'angolo con via Paladini nei pressi della sua abitazione. Veniva aggredito da alcuni giovani armati di chiavi inglesi: il ragazzo, dopo aver tentato disperatamente di difendersi proteggendosi il capo con le mani ed urlando, veniva colpito più volte e lasciato a terra esamine. Alcuni passanti lo soccorrevano e veniva ricoverato al reparto Beretta del policlinico per trauma cranico (più esattamente ampie fratture con affondamento di vasti frammenti), ferita lacero contusa del cuoio capelluto e stato comatoso. Nelle settimane successive alternava a lunghi periodi di incoscienza brevi tratti di lucidità e decedeva il 29 aprile 1975"
(dagli atti del Processo)

SERGIO VIVRAI NEI NOSTRI CUORI!!!